- Ciabòt
- IGA
- Ollàre
- Papilla
- Presàmico
- Ratafià
- Sinoira
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Parola foodcultural soprattutto utile ai non piemontesi – quorum ego – o ai piemontesi giovani. Nel vocabolario Piemontese – Italiano di Michele Ponza da Cavour, ciabòt è casina, casoccia, casotto, casupola, casuccia, casa da contadino. Di fatto il ciabòt era il casottino in muratura che nei vigneti serviva come deposito di acqua e oggetti, riparo, luogo di riposo per i vignaioli. Se ne vedono ancora tanti tra i filari.
Il ciabòt contemporaneo è un posto accogliente, un gazebo reloaded. Varie aziende vitivinicole hanno rivitalizzato così un luogo funzionale. Altro che aperitivo al bancone. Nei ciabòt, si beve la storia del territorio.
Questa parola foodcultural fa coppia con “birra”. È un acronimo. Sta per Italian Grape Ale, equivalente a “birra italiana ad alta fermentazione con uva”. Siamo al confine tra birra e vino? La IGA è un’espressione della birra artigianale. La distingue la presenza, oltre al luppolo, del mosto d’uva sia cotto che fresco o del frutto al naturale.
Ora, se pensiamo all’infinità dei vitigni che possono, da soli o blendati, aggiungere personalità a una birra, diventa chiaro che la birra IGA non è solo un universo. È una fonte di ispirazione, sperimentazione, identità e affermazione per i microbirrifici del territorio.
Non è l’infinito del verbo, anche se ci piacerebbe. È l’aggettivo riferito alla pietra (ollite) di molte pentole o piastre di cottura. “ollare” deriva da “olla“, recipiente panciuto usato nella civiltà romana per cuocere o conservare cibi, liquidi, le ceneri di un defunto, denaro.
Da qui la commedia di Plauto Aulularia (da aulŭla = piccola aula, sinonimo di olla), storia di un tesoro in una pentola. Sempre da qui, il fil-rouge con le leggende che parlano di pentole piene d’oro sotto l’arcobaleno. A noi però interessano anche la olla podrida, o i ceci alla salentina nel coccio.*
Sostantivo femminile singolare. Anche in latino “papilla” è uguale e si connette a “papŭla”, cioè capezzolo. Toh. Tra tutte le formazioni anatomiche che meritano di chiamarsi papille, a noi interessano le papille gustative. Sono quelle micro-protuberanze della nostra lingua che ci permettono di ricevere i sapori: un organo del gusto, al servizio delle nostre esperienze.
Ricordiamoci che in greco “òrganon” vuole dire “strumento” – uno strumento che possediamo dalla nascita. Le nostre papille, viste al microscopio, hanno forme bellissime, quasi floreali. E sì, nel logo di oltrelordine c’è il profilo stilizzato di una papilla. Così tutto torna. Specchiati la lingua!
Ecco un termine tecnico dal mondo caseario. Deriva da presame, cioè il caglio, che innesca la coagulazione del latte per trasformarlo in formaggio. Il caglio tradizionale è ricavato in maniera super-regolamentata dal quarto stomaco (abomaso) di ruminanti non svezzati, ed è ricco di tutti gli enzimi necessari alla digestione del latte.
Formaggi presàmici sono tutti quei prodotti a pasta molle o dura che aggiungono il caglio al latte. La definizione vale per esteso anche sui formaggi a base di caglio microbico o vegetale. È la sapienza – a volte l’inventiva – del casaro-affinatore che definisce struttura, aroma, identità del formaggio.
La parola sembra uscita da una canzone di Paolo Conte. Anzi lo è. Il ratafià, vino lavorato o liquore sciropposo, è fatto di ciliegie selvatiche. O di ginepro, mirtillo, noci, albicocche, lamponi, uva, nespole, moscato; di noccioli e semi; di garofani, fiori d’arancio, fiori da bere!
Inventato in Piemonte*? Ma esistono anche il ratafià abruzzese, ungherese, spagnolo, francese, portoghese. Il nome? Un equivoco, dai molti rivoli. Forse la storpiatura di rectifié, riferendosi al vino, oppure di sic res rata fiat, frase con cui il notaio concludeva la stipula di un atto. Seguita da brindisi propiziatorio.
Questa parola non è mai da sola, ma associata a “merenda”. La merenda sinoira è la trisnonna dell’happy hour, dell’apericena, di tutti quei pasti che iniziano nel tardo pomeriggio e finiscono quando è tardi anche per cenare. Perché si chiama così? Perché viene da “sina“, in dialetto piemontese “cena“.
Gli eruditi la chiameranno “merenda cenatoria”. Altri, con falsa etimologia, diranno che è la “merenda senza ora“: la spiegazione è sbagliata, ma il senso è giusto. La merenda sinoira sovverte l’ordine dei pasti, ma forse è servita a saziare tanti che a cena sarebbero arrivati con un buco nello stomaco.